Spesso “l’ultima spiaggia è lo psicologo”.
Nella mia esperienza professionale quando mi trovo al primo colloquio con persone di ambo i sessi o con coppie o famiglie, le prime parole sono: …” Ci hanno indicato il suo nome perché forse ci può aiutare, abbiamo provato di tutto, siamo stati a…e abbiamo incontrato… Ma purtroppo non riusciamo ad uscire da questa situazione”.
Allora mi domando: ma chi è lo psicologo? Perché è l’ultima spiaggia tra le soluzioni di situazioni così difficili nella vita degli individui?
La “paura culturale”
Senza pensare di definire i termini paura e cultura integralmente partendo dalle proprie radici etimologiche, proviamo a spiegarci cosa è l’ansia che si lega ad una “paura culturale”.
“Paura” (dal latino pavura – pavere) pensiamola come un’emozione che si prova quando si ha la percezione di un pericolo sia esso reale o immaginario.
“Cultura” (dal latino colere – coltivare) pensiamola come un insieme di modi di interpretare la vita presenti e tramandati che gli individui condividono.
La psicologia, scienza relativamente giovane e spesso impalpabile per pensiero popolare e religioso, ha creato con il proprio avvento culturale, reazioni di pensiero correlate spesso a credenze dettate dal periodo storico e legate allo stesso tempo, nell’opinione popolare, alla paura di “scoprire” i segreti più intimi o quelle “cose” che nessuno deve sapere …. come se lo psicologo fosse un po’ “mago e chiaroveggente”. Come se ci fosse la paura che lo psicologo potesse leggere e quindi manipolare i “ propri segreti”, quelli che nessuno deve sapere, quelli scomodi che ci fanno sentire brutti, non appropriati e trasgressivi. Sicuramente mettersi in discussione è spesso faticoso e difficile, così come riconoscere di essere in uno stato di sofferenza e chiedere aiuto. Più facile nel nostro sistema sociale è ricorrere al farmaco che spesso “fa andare avanti” e assopisce la sofferenza. Un po’ come l’alcol o gli stupefacenti nelle persone con disagi più gravi. Ma il problema resta, rode e corrode.
Il lavoro dello psicologo. Il primo colloquio
Spesso quando mi siedo sulla poltrona e ho davanti gli occhi del paziente, ho un momento di vuoto totale, quel momento in cui dimentico i miei problemi e scelgo di ascoltare con orecchio teso le parole , il tono di voce e osservare le gesta della persona davanti a me. Il linguaggio parlato e il linguaggio silenzioso. So per certo che in quel momento si sta stabilendo un accordo, un contratto non scritto in cui il paziente va oltre il racconto e dice: “Dottore sto male e non solo non capisco il mio vero problema, ma non conosco nemmeno la verità più profonda preferendo di raccontare bugie su di me, quelle che mi permettono di andare avanti e a cui voglio credere. Una cosa è certa sono venuto da lei ma non so se posso fidarmi e poi lei difficilmente può fare qualcosa per me”. Io così mi trovo davanti ad una condizione di piena sfiducia e diffidenza del paziente e devo elaborare una prima ipotesi di lavoro che dia la possibilità di dar vita ad una relazione di fiducia tra me e una persona che mi tende la mano, ma ha paura di farsi conoscere.